Laboratorio delle idee per la produzione e la programmazione dello spettacolo lombardo

ARRUSI

ARRUSI - Immagine: 1
compagnia: A.T.I.R.
di: Gabriele Scotti
cast: Pilar Perez Aspa, Simone Tudda, Sandra Zoccolan
regia: Omar Nedjari
durata: 90 minuti
ARRUSI
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Scheda tecnica

C’è una storia poco raccontata, se non addirittura ignorata: quella degli omosessuali che, sotto il Fascismo, venivano confinati in isole di detenzione in nome della purezza della razza e del costume.
Siamo nel 1939.
In Italia, folle oceaniche machiste manifestano nelle piazze per il “posto al sole”, le campagne demografiche incitano alla procreazione e inneggiano al maschio pater familias, con gioia si dimezzano gli stipendi delle donne, al cinematografo passano le Conversazioni di Cultura Fascista per le Massaie Rurali, i cinegiornali millantano le imprese amatorie del Duce e il Corriere di Sicilia delira di difesa della razza. E’ in questo contesto che a Catania si insedia il nuovo questore, Alfredo Molina. Il suo primo incarico sta nell’indagare sul misterioso omicidio di un signorotto locale, il ragionier Tancredi, trovato con la testa schiantata nella sua casa in un palazzo barocco del centro. Inaspettatamente, le ricerche conducono al sottobosco omosessuale della città coi suoi segreti ritrovi: l’ombra dell’arvulu russu (l’albero rosso), una balera sgangherata e poi cene in case private animate dalla musica di Bellini. Molina, fervente fascista, decide di combattere la sua crociata per eradicare il malcostume. E’ così che una notte avviene la prima di molte retate: 30 ragazzi e uomini della città vengono arrestati con l’accusa di essere omosessuali. Di essere: arrusi.
Il termine arrusi è usato anche oggi per appellare in chiave dispregiativa i maschi omosessuali. Ma, nella Sicilia degli anni Trenta, arruso era un termine più specifico, perché indicava l’omosessuale passivo. Era infatti accettato che il masculo potesse desiderare altri uomini rimanendo attivo nel rapporto, perché si sa, il maschio è maschio e se illibidinato non si tiene! Ma che fosse ricettivo, ossia che rinunciasse al ruolo maschile, proprio non era ammissibile. Dunque, sotto il Fascismo, essere arruso doveva essere punito.
Per tutti gli arrestati iniziano dunque gli interrogatori, tutti uguali, tutti accuratissimi: sei pederasta? Da quanto tempo? Con quante persone sei stato? Lo facevi per lucro? Attivo o arruso?
Per capirlo c’è solo un modo: l’ispezione fisica. Molina e collaboratori esaminano senza posa i sospettati in ogni cavità del corpo, producendo sopraffine valutazioni, cercando di capire caso per caso se si tratti di invertimento congenito o di pervertimento acquisito. I faldoni di ciascun sospettato, ancora oggi consultabili, tracimano pagine dattiloscritte che, nella loro tragica assurdità, hanno spesso risvolti ridicoli.
Non essendo l’omosessualità propriamente un reato, gli incarcerati non hanno diritto a un avvocato di difesa. L’unica cosa che possono fare è chiedere pietà riempiendo pagine di suppliche, giunte sino a noi. Ma le lettere non sortiscono alcun effetto e gli arrusi vengono mandati al confino. Per cinque lunghi anni. Dove? Non lo sanno.
Vengono caricati su un bastimento, poi su una bagnarola e infine eccola: l’isola. Uno scoglio sperduto nel Mediterraneo.
Gli arrusi camminano legati uno all’altro, come criminali, sotto un sole di fuoco, lungo la salita che conduce al centro abitato, accarezzati dagli sguardi muti degli abitanti del luogo. Scappa un segno della croce.
L’isola è una vera e propria colonia carceraria il cui direttore ha pieni poteri. E’ come un doge, sopra di lui nella scala del potere c’è solo Mussolini.
In questo mondo le classi sono ben definite: i prigionieri (divisi in politici e pederasti), i civili (per lo più pescatori e pastori), i militari.

L’isola è un microcosmo chiuso, fuori dal mondo. Perfino le guardie e il direttore vi sono destinati per mancanza di appoggi se non per punizione. Così viene definita l’isola: “una Mont Saint Michel merdosa”.
Come in tutte le prigioni, anche sull’isola le regole sono chiare. I prigionieri politici possono vivere mescolati alla popolazione locale, gli arrusi invece sono separati dalla collettività, relegati in un camerone costruito nella brulla campagna fuori dal centro abitato, sorvegliati da carabinieri. Tutti i giorni l’appello con il saluto romano, per lavarsi il bagno in mare - ma solo due volte a settimana - le lettere ai parenti, le suppliche e i permessi mai concessi, i divieti di discussione politica e il dovere di lavorare.
Sull’isola non ci sono solo i catanesi ma uomini di molte città d’Italia, e le lettere spedite dai confinati restituiscono l’affresco delle loro vite in quella nuova quotidianità: c’è chi prega i parenti di rivolgergli ancora parola, chi tenta di combinare un matrimonio pur di fuggire da lì, chi scrive alle donne rimaste a casa, madri, sorelle, mogli.
Si verificano ribellioni come il rifiuto di eseguire il saluto romano e tentativi di fuga. Nascono alleanze inattese e imprevedibili relazioni amorose. Si organizzano spettacoli teatrali con il niente, si canta e si cerca di dimenticare il presente, prigioniero di un mare che non è ponte ma isolamento.
Finché accade qualcosa di inatteso: l’ingresso dell’Italia in guerra. Tutti i confinati omosessuali vengono rispediti a casa, perché a quel punto le priorità, politiche e militari, sono altre. Il momento è di gioia e struggimento insieme. Accade infatti che, accanto a coloro che sono felici per la ritrovata libertà e a coloro che lasciano l’isola ingiuriando Fascio e Mussolini, ci siano prigionieri che piangono di tristezza, perché lasciano un ambiente limitante ma a suo modo protetto, dove si sono fatti degli amici, avendo vissuto per la prima volta se stessi liberamente, alla luce del sole.
Per tutto questo, Arrusi è l’epico racconto di un contesto storico unico, il racconto corale di una dimenticata pagina di storia italiana ricca di echi al presente, in cui si mescolano diversità, lotta per la libertà e Grande Storia.

 

NOTE DI REGIA

La forte impressione, in questo momento storico, è quella di oscillare fra due opposte condizioni: da una parte l’idea di vivere in una delle epoche più libere della storia dell’umanità, dove ognuno può finalmente esprimere se stesso senza temere di essere punito, quantomeno dallo stato democratico; dall’altra l’inquietante consapevolezza, che ogni giorno sembra diventare più concreta, che tutti i diritti acquisiti da chi ci ha preceduto e ha lottato per ottenerli, possano di colpo essere cancellati.
Entrambe le condizioni hanno poi risvolti estremamente problematici. Innanzitutto sembra che quest'epoca così libera viva più di tutte la crisi profonda dell'identità. Sommersi da continui messaggi pubblicitari che inventano sempre nuovi desideri, e spinti dalla società a cercare il nostro vero “io”, scavando sempre più a fondo, senza restrizioni, senza censure, fatichiamo a capire chi siamo.
Nulla disorienta più di una infinita possibilità di scelta. Ed ecco che, tragicamente, lo spaesamento e la confusione per eccesso di informazioni, sembra spingere sempre più persone a preferire i valori solidi di governi autoritari, piuttosto che una libertà così frastornante.
La storia degli arrusi da una parte ci ricorda come la conquista di un diritto sia dura e faticosa e la sua perdita rapida e terribile; dall’altra, mentre noi fatichiamo a capire chi siamo e siamo sollecitati verso un’infinita ricerca rischiando di lasciarci scivolare dalle mani i diritti conquistati, ci mostra come proprio in quel carcere umiliante molti uomini siano riusciti con forza e chiarezza ad affermare la propria identità.
In scena tre voci, quella di un uomo e due donne: un piccolo coro per raccontare questa storia appunto corale.
L’unico uomo rappresenta la solitudine di una mascolinità che, confinata in un’isola di soli uomini, può rapportarsi solo con se stessa pur nelle diverse sfumature, e risalterà a fianco alle voci femminili che restituiscono il vissuto di figure lontane e impotenti: il dolore, la rabbia e lo sgomento di madri a cui hanno portato via i figli, delle sorelle e delle mogli, sposate talvolta per fugare il dubbio sullo stigma dell'omosessualità.
A fare da cornice, le sonorità del tempo, canzoni, inni, musiche che saranno riscritte e arrangiate, dimostrando la loro forza e la loro risonanza con la contemporaneità.
Il desiderio e la necessità sono quelli di costruire un intreccio di voci che grazie all'interpretazione di tre attori di grande intensità, ci porti su quell’isola dove la storia degli arrusi, privati di ogni libertà, può forse farci da bussola per evitare di smarrirci in un presente apparentemente molto libero.
Omar Nedjari